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Organizzazioni complesse e individuazione delle responsabilità penali



Articolo a firma del dott. Nicola Bramante del Foro di Bologna sulla difficile individuazione delle responsabilità penali nelle organizzazioni complesse.



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La “spersonalizzazione” nelle organizzazioni complesse e la difficile individuazione dei soggetti penalmente responsabili. Teorie formale e funzionale a confronto.

 

 

 

Uno dei maggiori problemi che attanaglia il diritto penale dell’impresa è quello dell’individuazione del soggetto che deve essere considerato destinatario delle norme penali all’interno delle organizzazioni complesse, le quali – come noto – rappresentano la modalità più diffusa per operare nel mercato. E’ opportuno premettere come il sistema penale dell’impresa sia caratterizzato dalla massiccia presenza dei c.d. reati propri, ossia da quelle fattispecie che si riferiscono a determinate “tipologie di autore” (es. imprenditore, datore di lavoro etc.) la cui qualifica soggettiva individua uno specifico disvalore della condotta, introducendo conseguentemente una vera e propria modalità di lesione del bene giuridico (1); qualifica soggettiva che, da un punto di vista relazionale, fonda uno specifico legame di affidamento tra il bene protetto ed il soggetto che versa in quella specifica condizione personale richiesta dalla norma (2).

Anche nei casi in cui non ci sia un espresso riferimento a delle qualifiche soggettive specifiche e sia, invece, presente la formula del reato comune – solitamente la locuzione “Chiunque” – non può non venire in considerazione ugualmente la particolare posizione in cui si trovano i soggetti operanti nella struttura aziendale; posizione in ogni caso “qualificata” rispetto al bene giuridico (3). Si pensi, solo per fare degli esempi all’art. 437 c.p. (Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro) e all’art. 451 c.p. (Omissione colposa di cautele o difese contro i disastri o infortuni sul lavoro), reati che non si riferiscono al solo datore di lavoro, ma a “chiunque” ponga in essere la condotta in essi descritta (4), ma che in ogni caso “appaiono legati ad una particolare posizione funzionale presente nell’organizzazione aziendale” (5): in pratica, anche laddove la fattispecie appaia strutturalmente come un reato comune, sarà comunque presente quello specifico legame di protezione tra il soggetto operante nell’impresa ed il bene giuridico (6).

Prima di addentrarci nell’analisi dei criteri elaborati da dottrina e giurisprudenza per individuare i soggetti penalmente responsabili all’interno dell’impresa, occorre spendere qualche parola sulla c.d. “spersonalizzazione” a cui si assiste quando si parla di organizzazioni complesse. Attraverso un’attenta analisi, infatti, si evince che nell’odierno contesto sociale si ha, in generale, un netto distacco dagli schemi del c.d. diritto penale “classico” (7) (monosoggettivo-causale-colpevole) e ciò soprattutto in merito alla individuazione dei soggetti penalmente responsabili operanti all’interno degli operatori economici collettivi.

E’ stato opportunamente rilevato come rispetto all’autore del reato – con riferimento al “moderno” diritto penale (8) – non è più prevalente la figura monosoggettiva, bensì sempre maggiore importanza ottiene quella plurisoggettiva, ciò in quanto una delle peculiarità dell’attuale contesto operativo consiste nella dominante collettiva nelle forme di manifestazione del reato (9). “La responsabilità, infatti, coinvolge costantemente una pluralità di soggetti che operano in mega-apparati, la cui configurazione organizzativa incide (…) sugli stessi procedimenti decisionali e sui meccanismi di distribuzione  delle responsabilità” (10).

            Quanto detto è il frutto della sempre maggiore frammentazione dei processi decisionali in cui la singola persona fisica non ha più – diversamente da quanto accade nel paradigma “classico” – il totale controllo sul fatto di reato (11), appunto perché il singolo è solo uno dei molteplici anelli della catena decisionale di cui fa parte; si assiste, in pratica, ad un processo “frammentato” che vede la compartecipazione di più soggetti verso un’unica decisione, in modo che il singolo individuo perda potere a tutto vantaggio di una “dimensione organizzativa plurale e decentrata” (12).

Viene – a tal proposito – in evidenza il concetto di gruppo, quale metodo decisionale in cui più persone interagiscono e dipendono ognuno dall’altro per il conseguimento di uno scopo comune. Ognuno dei partecipanti al gruppo ha, infatti, uno specifico ruolo la cui assegnazione ed esplicazione genera aspettative comportamentali negli altri soggetti: ciascun membro del gruppo si attende che gli altri svolgano il proprio compito in una determinata maniera, in modo che l’opera del singolo possa accedere a quella di un altro e cosi via (13). Ogni individuo ha, quindi, uno specifico compito da svolgere in vista della decisione finale, la cui ultima non è la somma delle competenze individuali, ma qualcosa di più, in quanto il gruppo in sé considerato possiede delle conoscenze superiori a quelle dei singoli, nonché un maggiore ventaglio di soluzioni alternative a seconda dei problemi di volta in volta scaturenti (14).

Da quanto sopra risulta come sia impossibile “spiegare” i comportamenti all’interno delle organizzazioni attraverso lo schema individualistico, talché si dice che l’organizzazione è capace di esprimere una cultura propria ed un proprio ed apposito piano strategico ed operativo dai quali si evince la cultura d’impresa, intesa come orientamento strategico di fondo dell’azienda (15).

E’ per queste ragioni che si deve valutare come positiva la scelta di assoggettare a sanzioni amministrative-penali le organizzazioni che commettono determinati reati a causa di una propria e spregiudicata politica d’impresa anche per il solo fatto di non essersi dotati di appositi modelli organizzativi atti ad evitare che i singoli appartenenti al gruppo fuoriuscissero dalla legalità (16).

Tutto questo non significa affatto abbandonare l’accertamento di responsabilità individuali, anche perché – non dobbiamo mai dimenticarlo – le organizzazioni sono composte da individui, ma, anzi, la responsabilità dell’impresa si affianca a quelle del singolo quale forma di responsabilità propria dell’organizzazione in quanto tale. Resta comunque indubbio che in un simile scenario è opera assai ardua individuare la singola persona fisica responsabile penalmente; ciò nondimeno è indispensabile, in quanto il principio della personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 Cost., impone all’interprete di individuare il soggetto/persona fisica a cui poter rimproverare il fatto proprio commesso, causalmente orientato verso la verificazione della lesione o messa in pericolo del bene giuridico (17). Tale accertamento all’interno dell’impresa – è stato detto – si traduce nell’individuazione dell’ “effettivo titolare del potere il cui uso (o mancato uso) è riconoscibile come la causa dell’offesa arrecata; e, successivamente, se lo scorretto uso del potere in parola sia, al medesimo soggetto, in concreto rimproverabile (nelle forme del dolo o della colpa)” (18).

Ecco, allora, che la giurisprudenza e la dottrina hanno cercato di elaborare dei criteri volti ad individuare i soggetti penalmente responsabili all’interno dell’impresa che tenessero conto proprio della peculiarità dell’organizzazione stessa: la compresenza di molteplici soggetti i quali ognuno ha un ben specifico compito; nonché i rapporti di dipendenza gerarchica presenti tra i soggetti stessi.

Il fenomeno ha avuto particolari elaborazioni all’interno dell’ambito del diritto penale del lavoro e specificatamente per l’individuazione dei soggetti garanti che potessero commettere i reati propri posti a presidio della tutela dei lavoratori; ovviamente consimili elaborazioni possono essere comunque estese anche ad altri settori del sistema penale in cui siano presenti le medesime problematiche.

A contendersi il campo sono due orientamenti: la teoria formale e quella funzionale.

Secondo la teoria formale il soggetto penalmente responsabile va individuato verso il <<vertice aziendale>>, e, più precisamente, l’autore del reato proprio può essere solo chi riveste una determinata e ben specifica qualifica formale extra-penale richiamata dalla fattispecie incriminatrice (19). Questo vuol dire che le qualificazioni soggettive debbano essere intese nel loro esatto significato privatistico in quanto “sono assunte nelle fattispecie criminose con tutta la loro pregnanza normativa, con la corona dei poteri e dei doveri che vi ineriscono” (20). Il riferimento al vertice aziendale è giustificato dal fatto che essendo l’attività d’impresa possibile fonte di eventi lesivi, il controllo degli stessi sarà inevitabilmente rimesso a chi detiene i poteri decisionali e gestionali necessari alla neutralizzazione delle relative fonti di rischio (21).

Secondo gli Autori che aderiscono a questa prima impostazione, inoltre, nemmeno può dirsi che in tal modo la natura autonoma del diritto penale possa essere compromessa, cadendo conseguentemente in una mera funzione sanzionatoria dell’illecito penale, dato che in alcuni settori tale autonomia è “meno spinta” perché nei settori che maggiormente ci interessano “la repressione penale si rivolge a situazioni normativamente qualificate, nelle quali il disvalore è inscindibilmente connesso all’abuso di quei poteri che dalla qualifica traggono origine” (22). Si aggiunge, ancora, che la teoria funzionale è censurabile perché pregiudica la tassatività del reato proprio facendo si che i suoi contorni diventino incerti e piuttosto vaghi (23). Occorre comunque segnalare che l’impostazione formale è quella nel tempo più risalente e non è difficile scorgere pronunce in cui si afferma la responsabilità del legale rappresentante, appunto valorizzando totalmente il dato formale (24).

La teoria funzionale, d’altro canto, mette in risalto l’autonomia del diritto penale ed assume quali responsabili all’interno delle organizzazioni complesse chi attualmente ed effettivamente svolge le funzioni il cui esercizio è indicato dalla norma; in pratica si valorizzano le mansioni svolte in concreto (25).

I sostenitori di questo orientamento innanzitutto mettono in evidenza come un approccio funzionalistico non pregiudicherebbe affatto la tassatività del precetto penale – come invece ritengono i “formalisti” – ma darebbe “sostanza” al principio di legalità, il quale se fosse troppo agganciato alla “forma” non esplicherebbe appieno la sua funzione di baluardo della garanzia penale (26). Non è mancato, inoltre, chi ha accusato la teoria formale di essere causa del sorgere di “responsabilità di posizione” (27), ossia un approccio meramente formale valorizzerebbe quelle tendenze di semplificazione probatoria volte a ricercare la responsabilità penale direttamente nei confronti di chi è “formalmente” investito della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice senza peraltro indagare sulla vera capacità di azione del soggetto stesso. Ecco allora che grazie alla teoria formale trova facile dimora il brocardo <<qui in re fructuosa versatur, tenetur etiam pro casu >> (28). A ciò si aggiunga che – sempre secondo i suoi sostenitori – “la teoria <<funzionale>> risulta più convincente, perché considera destinatario della norma il soggetto che è in grado di controllare più da vicino, e con poteri effettivi, la fonte di pericolo” (29). Anche per quanto riguarda la “meno spinta” autonomia del diritto penale in alcuni settori – posizione questa propugnata, come si è visto, da qualche Autore (30) che aderisce all’approccio formale – i “funzionalisti” ribattono sostenendo che la dottrina oramai respinge le concezioni privatistiche (31)  e propende oggi a riconoscere al diritto penale un carattere autonomo ed originario valorizzando il principio di frammentarietà nei casi in cui il fatto di reato sia anche un illecito extra-penale: si dice infatti che la norma penale si caratterizza per essere un illecito di modalità di lesione (32).

Si sottolinea anche come il diritto penale debba “prendere in considerazione l’effettiva realtà delle cose, spogliandosi da ogni atteggiamento formalistico. Ecco perché esso deve tener conto, per ciò che attiene ai soggetti e alle caratteristiche che li contraddistinguono nei reati propri, della funzione da essi effettivamente esercitata piuttosto che del titolo che la definisce: della sostanza piuttosto che della forma” (33).

A nostro sommesso avviso la teoria che sembra più consona alle esigenze del diritto penale ci sembra quella funzionale, in quanto un aggancio esclusivo alla forma sarebbe sicuramente in contrasto col principio di personalità dato che si legittimerebbero delle surrettizie forme di responsabilità di posizione.

Non ci convince neanche la più recente impostazione di chi ha cercato di coniugare le istanze funzionali con quelle formali. Il riferimento è a quella elaborazione secondo cui la commissione di un reato da parte dei soggetti partecipanti ad un’organizzazione complessa sarebbe dovuto ad uno scorretto esercizio dei poteri; occorrerà quindi verificare a quale delle funzioni in cui si articola l’impresa sia riferibile quello specifico deficit di sicurezza e di garanzia. Essendo, però, la funzione impersonale è necessario “tradurre” la stessa in termini di responsabilità personale e colpevole alla stregua dell’art. 27 Cost., e per fare ciò si dovrà ricercare il ruolo e la persona fisica che lo riveste al quale sono attribuiti i poteri di governo della funzione stessa. A questo punto è necessario fare riferimento alla disciplina interna dell’ente – purché, ovviamente, rappresenti una corretta estrinsecazione della autonomia privata riconosciuta dalla legge – attraverso la quale rinvenire i ruoli e le persone: si ha, in buona sostanza, un ripercorrere dell’organizzazione aziendale attraverso cui risalire agli effettivi titolari dei poteri di controllo (34).

Riteniamo che tale impostazione, di fatto, coniughi molto poco le due teorie e si rifaccia perlopiù a quella formale, in quanto si va alla ricerca dei responsabili tenendo in scarsa considerazione le mansioni di fatto svolte da un soggetto a prescindere dalla sua formale presenza o meno nella rete aziendale. Inoltre, la pur condivisibile esigenza di individuare il soggetto in base al ruolo a cui la funzione deficitaria è riferibile non riesce a mettere in evidenza la titolarità effettiva del ruolo stesso. Ancora, si utilizza quale parametro “funzionale” un criterio che è tutt’altro che funzionale, ossia la più che formale disciplina aziendale.

Benché quest’ultima impostazione sia stata, in alcune occasioni, fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità (35), crediamo comunque che l’individuazione dei soggetti responsabili debba partire dalla formale qualifica che il singolo riveste, ma ciò non vuol dire che si radichi, conseguentemente, la responsabilità penale. La qualifica formale dovrà essere solo il primissimo gradino dell’indagine, ma poi si dovrà verificare se il formalmente investito sia anche il reale titolare (non tanto della qualifica ma) dei poteri ad essa inerenti; e per fare consimili accertamenti si dovranno esaminare esattamente quali fossero in realtà le mansioni svolte dal singolo e se quelle mansioni – con i relativi poteri – siano o meno riconducibili alla qualifica prevista dalla norma penale. Ovviamente l’assetto organizzativo-aziendale potrà essere d’aiuto nell’individuare le posizioni ed i ruoli dei singoli individui, ma si dovrà in ogni caso verificare se a quelle posizioni “sulla carta” coincidenti con quelle richieste dalla norma penale corrisponda anche il “reale” corollario di poteri ad esse inerenti, tale da far collimare la forma con la sostanza.

Non è un caso, infatti, che anche la giurisprudenza si assesti verso orientamenti che valorizzano le mansioni svolte in concreto (36).

Alla teoria funzionale va inoltre il merito di essere riuscita a far affermare la teorica sull’amministratore di fatto, ossia un soggetto privo della qualifica formale – quest’ultima è in capo ad una c.d. “testa di paglia” – ma che, di fatto, possiede i poteri necessari per guidare e gestire l’impresa (37).

Mancando nel nostro ordinamento – diversamente da quanto accade in altri contesti, quali ad esempio quello inglese o quello francese – qualsiasi clausola generale di equiparazione tra amministratore di diritto e quello di fatto e stante il divieto di analogia in materia penale (38), il primo intervento legislativo volto a dare cittadinanza all’amministratore di fatto è stata la Legge Bancaria del 1993 (d.lgs. 1-9-1993 n. 385) in cui all’art. 135 ha riaffermato l’applicabilità dei reati societari di matrice codicistica anche agli operatori bancari non costituiti in forma di società definendoli non con le tradizionali figure soggettive (amministratori, direttori generali, sindaci) bensì valorizzando il dato funzionale; si dispone infatti che <<Le disposizioni contenute nel titolo XI del libro V del codice civile si applicano a chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso banche, anche se non costituite in forma societaria>> (39).

A seguito dell’intervento dell’art. 1 del d.lgs. 11-4-2002, n. 61, con cui si è modificato tutto il titolo XI del codice civile (Disposizioni penali in materia di società e di consorzi) anche il nostro ordinamento si è dotato di una norma in grado di mettere sullo stesso piano amministratori di diritto e quelli di fatto, e precisamente si tratta dell’art. 2639 c.c. (Estensione delle qualifiche soggettive) secondo il quale è equiparato al soggetto formalmente investito della qualifica richiesta ai fini dell’integrazione della fattispecie di reato anche <<chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione>>.

A onor del vero già lo <<Schema Vassalli-Pagliaro>>, nel 1992, aveva previsto all’art. 9 comma 1 che <<quando la legge penale indica il soggetto attivo mediante una qualifica soggettiva, che implichi la titolarità di un dovere o potere giuridico, essa ha come destinatario il formale titolare della stessa o chi, mediante l’esercizio di fatto di un’attività, è divenuto titolare di tali doveri o poteri giuridici>>.

Anche l’articolato elaborato dalla Commissione Grosso ha dato rilevanza alle mansioni di fatto svolte da un soggetto, ed infatti all’art. 25 si stabilisce che è tenuto ad attuare modelli organizzativi idonei ad evitare reati commessi per inosservanza di disposizioni inerenti all’attività di organizzazione (art. 24, comma 1) non solo chi per legge o statuto ha il potere di direzione dell’organizzazione, ma anche <<chi, pur senza averne il potere formale, dirige di fatto l’organizzazione>>.

Come si vede non solo i Progetti di riforma del codice penale, ma anche il Legislatore stesso (con la legge bancaria prima, e con la riforma dei reati societari poi) hanno dato rilevanza alla teoria funzionale, ma soprattutto hanno mostrato come il diritto penale respiri con i propri polmoni e che esso non deve fermarsi alla forma, ma scovare la sostanza.

 

(Nicola Bramante)

 

1) Si veda in argomento VENAFRO, Reato proprio, in Dig. Disc. Pen., XI, Torino, 1996, pp. 337 ss.

2) Cfr. FIORELLA, Reo, in EGI, XXVI, Roma, 1991, p. 5; condivisibile, a nostro avviso, è quanto affermato dal CADOPPI, Il reato omissivo proprio, Padova, 1988, p. 773, per sottolineare lo stretto legame intercorrente tra il bene protetto e il soggetto titolare della qualifica soggettiva, ossia utilizzare il concetto di <<posizione di garanzia>> - nato, nell’elaborazione dottrinale in tema di reati omissivi impropri – anche nel settore di reati omissivi propri.

3) ALESSANDRI, Impresa (Responsabilità penale), in Dig. Disc. Pen., V, Torino, 1992, p. 200

4) E’ stato opportunamente rilevato come il Legislatore abbia dato particolarmente importanza alla tutela delle condizioni di lavoro, talché si è ritenuto opportuno  “suggerire lo stigma penale ogniqualvolta le cautele di legge siano rimosse o anche solo semplicemente dimenticate e non vi sia da parte del soggetto obbligato l’adozione di rimedi sostitutivi comunque sufficienti a prevenire gli eventi descritti dalle fattispecie” (MUSCATIELLO, La tutela altrove. Saggio sulla tutela dell’homo faber nel codice penale, Torino, 2004, p. 82).

5) BAIMA BALLONE, La delega di funzioni e il problema dei soggetti responsabili nel diritto penale dell’impresa, in ROSSI (cura di), Reati societari, Torino, 2005, p. 105

6) Il fenomeno è riscontrabile, soprattutto, nei c.d. reati comuni commissivi mediante omissione (omissivi impropri) non espressamente tipizzati dal Legislatore ma che nascono dal combinato disposto della clausola generale dell’art. 40 cpv c.p. con la singola fattispecie incriminatrice di un comportamento positivo, qualora sussista in capo a certi soggetti “garanti” un obbligo giuridico di impedire un evento.

7) Sulle differenze tra il paradigma classico e quello moderno del sistema penale, fondamentale è lo studio del PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in RIDPP, 1994, pp. 1225 ss.,

8) Giova ricordare come la discussione sul diritto penale “moderno” sia il frutto dell’intuizione della scuola penalistica francofortese ed è sintomo della diversità sociale, culturale ed economica del nostro tempo, rispetto a quello illuministico in cui fu elaborato il c.d. diritto penale “classico”; a tal proposito si vedano i fondamentali lavori di HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, pp.378ss., in ZRP, 1992; ID., Produktverantwortung im modernen Strafrecht, pp. 3 ss.. Heidelberg, 1994; nella letteratura spagnola, si veda SILVA SANCHEZ, L’espansione del diritto penale. Aspetti della politica criminale nelle società post-industriali, a cura di MILITELLO, trad. it. di , La expansiòn del derecho penal. Aspectos de la politica criminal en las sociedades postindustriales, Milano 2004; nella letteratura italiana si veda, soprattutto PALIERO, L’autunno del patriarca, op. cit.

9) Per questi rilievi si vedano PALIERO, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la <<Parte generale>> di un codice penale dell’Unione Europea, in RIDPP, 2000, p. 508; PIERGALLINI, Danno da prodotto e responsabilità penale. Profili dommatici e politico-criminali, Milano, 2004, pp. 301 ss.

10) PIERGALLINI, op. ult. cit., p. 302

11) Salvo – gli ormai rari – casi in cui su un unico soggetto è accentrato tutto il potere decisionale

12) PIERGALLINI, op. ult. cit., p. 312; cfr. anche PERRONE, Le strutture organizzative d’impresa, Milano, 1990, pp. 366 ss.

13) TOSI-PILATI-MERO-RIZZO, Comportamento organizzativo. Persone, gruppi, e organizzazione, Milano, 2002, pp. 100 ss.

14) BONAZZI, Dire fare pensare. Decisioni e creazioni di senso nelle organizzazioni, Milano, 1999, pp. 197 ss.; per questi rilievi cfr. anche PIERGALLINI, Danno da prodotto, cit., pp. 328

15) BASTIA, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa delle aziende, in Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, a cura di PALAZZO, Padova, 2003, pp. 35 ss.

16) Il riferimento è al D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento un’autonoma responsabilità amministrativa (penale?) delle persona giuridiche accanto a quelle penali dei singoli componenti, limitando, di fatto, il noto brocardo “societas delinquere non potest”.

17) E’ questa l’interpretazione dell’art. 27 Cost. datane dalla Corte costituzionale a seguito della nota sentenza n. 364 del 1988, attraverso la quale si è superata l’interpretazione “riduttiva” del medesimo fondamentale articolo in cui il solo limite che si individuava consisteva nel divieto di responsabilità per fatto altrui, con ciò – di fatto – legittimando lo schema della responsabilità oggettiva, attraverso il quale era facilmente mascherabile il caso di responsabilità di posizione. Con la predetta sentenza la Consulta, quindi, sancisce una interpretazione “forte” del principio di personalità affermando che tale canone postula non solo il divieto per fatto altrui, ma soprattutto il principio per cui la responsabilità penale è legata ad un fatto proprio colpevole.

18) ALESSANDRI, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell’impresa. Parte generale e reati fallimentari, Bologna, 2003, pp. 55-56

19) Cfr. PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. Soc., 1962,  p. 220; PULITANO’, Posizioni di garanzia e criteri d’imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. Giu. Lav., 1982, p. 180; ALESSANDRI, voce Impresa p. 193, cit.; PADOVANI, Reato proprio del datore di lavoro e persona giuridica, in RIDPP, 1979, p. 1170; ID. Diritto penale del lavoro. Profili generali, Milano, 1983; STORTONI, Profili penali delle società commerciali come imprenditori, in RIDPP, 1971, p. 1163

20) PEDRAZZI, Gestione d’impresa, cit., p. 229

21) GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, pp. 426 ss.

22) ALESSANDRI, voce Impresa, cit., p. 204

23) STORTONI, Profili penali, cit., pp. 1170 ss.; v. altresì PADOVANI, Reato proprio, cit., p. 1183; secondo questi due Autori, inoltre, la teoria funzionale comporterebbe uno scivolamento verso il basso della responsabilità penalmente rilevante dato che ad essere maggiormente pregiudicati non sarebbero coloro che hanno il potere ma chi è, invece, soltanto un mero esecutore

24) Un esempio ci viene offerto da quella pronuncia per cui nel “caso di società commerciali regolarmente costituite, all’osservanza delle leggi sul lavoro e sulle assicurazioni sociali come in ogni altra norma, sono tenuti i rappresentanti legali della persona giuridica”, Cass. 21-1-1957, in Giust. Pen., 1957, II, p. 751; v. anche Cass. 15-7-1955, in Mass. Giu. Lav., 1955, p. 259

25) Cfr. PAGLIARO, Problemi generali del diritto penale dell’impresa, in Ind. Pen., 1985, p. 17; FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985; SMURAGLIA, La sicurezza sul lavoro e la sua tutela penale, Milano, 1974; GRASSO, Organizzazione aziendale e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Arch. Pen., 1982, p. 744; BONINI, Soggetti penalmente responsabili all’interno dell’impresa e delega di funzioni alla luce dei d.lgs. n. 626 del 1994 e n. 242 del 1996 in materia di sicurezza del lavoro, in Ambiente, salute e sicurezza. Per una gestione integrata dei rischi da lavoro, a cura di MONTUSCHI, Torino, 1997, p. 265

26) Cfr. PAGLIARO, Problemi generali, cit., p. 21, il quale afferma che la teoria funzionale lungi dal pregiudicare il principio di tassatività piuttosto “attribuisce al principio di legalità quel significato sostanziale che corrisponde alle esigenze del diritto penale”.

27) FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dellìimpresa, Firenze, 1984

28) BONINI, Soggetti penalmente responsabili, cit., p. 268

29) BONINI, ibidem

30) ALESSANDRI, voce Impresa, cit., p. 204

31)Nota è la posizione del GRISPIGNI, Diritto penale italiano, I, Milano, 1952, il quale aderisce all’impostazione di Karl Binding secondo il quale il diritto penale avrebbe una mera funzione accessoria/sanzionatoria, in quanto ogni azione penalmente illecita sarebbe già vietata in precedenza da altra norma di diritto privato o di diritto pubblico.

32) Per tale ultimo rilievo FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. Generale, Bologna, 2001, p. 36

33) CONTI, Disposizioni penali in materia di società e di consorzi, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di GALGANO, Libro V: Lavoro art. 2621-2642, Bologna-Roma, 2004, p. 23; il medesimo Autore ritiene che vi sia conferma dell’approccio “funzionalistico” (prevalenza della sostanza sulla forma) anche negli artt. 357 e 358 del codice penale che indicano i criteri per individuare i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio.

34) ALESSANDRI, Manuale, cit., p. 61

35) Si veda in particolare Cass. 26-2-1998, in RIDPP, 2000, p. 364

36) V. ad esempio Cass. 22-3-1989, in Riv. Pen., 1990, p. 89 secondo la quale “In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro l’individuazione dei destinatari dell’obbligo di attuare le norme di sicurezza va fatta con riferimento alle mansioni disimpegnate in concreto e non alla qualificazione astratta del rapporto esistente tra i diversi soggetti”; v. anche Cass. 20-4-1989, in Riv. Pen., 1990, p. 182

37) Per alcuni rilievi critici su questa figura, peraltro superabili con quanto detto nel testo sulla preferenza della teoria funzionale su quella formale, si veda PEDRAZZI, Gestione d’impresa, cit., pp. 220 ss.; ROMANO M., Profili penalistici del conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni, Milano, 1967, p. 22. Altri Autori hanno invece segnalato che l’amministratore di fatto sarebbe una contraddizione in termini dato che può essere considerato amministratore soltanto chi opera attraverso una formale investitura dell’atto costitutivo o dell’assemblea (COTTINO, Diritto commerciale, I, Padova, 1994, p. 525).

38) Occorre comunque segnalare che la giurisprudenza era pacifica nel dare rilevanza alla figura dell’amministratore di fatto; si veda a tal proposito Cass. 15-5-1987, in Riv. Pen., 1988, p. 91, per cui “Del reato proprio del soggetto formalmente investito di una funzione tipica all’interno di un organismo societario, risponde anche colui che in presenza di un investitura irregolare, o non investito di incarico formale alcuno, eserciti di fatto le funzioni proprie dell’amministratore o del direttore generale o di altro responsabile della società, nn quale estraneo in concorso con gli organi legali della società, ma nella sua qualità di diretto destinatario della norma”; dello stesso tenore Cass. 1-2-1988, in Riv. Pen., 1988, p. 617; Cass. 14-4-1987, in Cass. Pen., 1988, 1730

39) Testo modificato dall’art. 9. 43 del d.lgs. 17-1-2003 n. 6, così come inserito dall’art. 2 del d.lgs. 6-2-2004, n. 37

 



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