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E’ stato presentato il 16
maggio 2005 un disegno di legge recante “Modifiche al decreto legislativo 8
giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilita`
amministrativa delle persone giuridiche, delle societa`
e delle associazioni anche prive di personalita`
giuridica” (C 5844, Lumia)
Il d.d.l. vuole estendere
la responsabilità dell’ente ai delitti di favoreggiamento e di turbativa
d’asta, al fine di contrastare in maniera più efficace il condizionamento
mafioso delle attività imprenditoriali.
- Le modifiche proposte
art 25-septies (Favoreggiamento)
1.
In relazione alla commissione del delitto di
cui all’articolo 378, quando aggravato ai sensi del secondo comma, del codice
penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
Secondo il proponente, negli ultimi anni è emersa con chiarezza “la capacità dell’organizzazione mafiosa di
articolare il proprio controllo lungo tutte le diverse
tappe in cui si svolgono le gare di appalto: dal momento iniziale della gara
stessa, eventualmente pilotata attraverso la creazione di « cordate » di
imprese legate a « Cosa Nostra », alla successiva fase della estorsione
perpetrata a danno delle imprese appaltatrici, mediante la richiesta del «
pizzo », fino alla creazione di veri e propri gruppi di imprese dediti al
riciclaggio di denaro sporco”.
Tra le critiche mosse al d.lg. 231 c’è
senz’altro quella concernente la mancata previsione di qualsiasi riferimento ai
reati « di stampo mafioso ».
Sotto questo profilo, “la
coniugazione della responsabilità penale dell’impresa a quella
economico-sociale sembra evocare l’impegno congiunto sia del legislatore
– in prima battuta – sia delle imprese stesse: il primo chiamato a integrare il
quadro normativo di riferimento alla luce delle reali e più pressanti emergenze
criminali; le seconde responsabilizzate nella adozione di modelli organizzativi
che, rispondendo ai requisiti indicati nel citato decreto legislativo, siano
altresì garanzia di trasparenza e di legalità”.
Il legislatore non ha fatto alcun riferimento ai reati « di stampo
mafioso », o comunque connessi al problematico
rapporto fra mafia e imprenditoria, “così
omettendo di provvedere alla definizione dei canoni di legalità ai quali la
nuova responsabilità sociale dell’impresa – culturalmente, prima che
giuridicamente, implicata dallo spirito del decreto legislativo n. 231 del 2001
– deve uniformarsi e grazie ai quali può rendersi impermeabile al ricordato
condizionamento criminale”.
L’introduzione degli articoli 25-septies e 25-octies alla sezione III del
capo I del decreto legislativo n. 231 del 2001, prevista dall’articolo 1 della
proposta di legge –rispettivamente rubricati « Favoreggiamento » e « Turbativa
d’asta » va incontro appunto a tale esigenza di
completezza.
In particolare, la previsione del primo dei citati reati si iscrive nel solco della più volte ricordata responsabilizzazione sociale dell’impresa: laddove la ratio sottesa al riconoscimento della nuova responsabilità penale-amministrativa e sociale dell’impresa postuli altresì la collaborazione attiva di quest’ultima al mantenimento della legalità nell’ambito delle dinamiche economiche e sociali, infatti, “risulta evidente la necessita‘ di sanzionare la condotta di quella impresa la quale, invece, mantenga una condotta connivente con gli obiettivi di politica criminale dell’organizzazione mafiosa, alimentandone la forza economica”.
In tale senso si giustifica, peraltro, il richiamo all’aggravante speciale prevista dal secondo comma dell’articolo 378 c.p., la quale ricollega la condotta di favoreggiamento in ausilio a un reato riconducibile allo schema di cui all’articolo 416-bis.
Nella stessa direzione l’introduzione del reato di cui
all’articolo 353 del codice penale, quando aggravato ai sensi dell’articolo 7
della legge 31 maggio 1965, n. 575.
In termini generali, infatti, quest’ultima
previsione risponde alle medesime finalità general-preventive
di lotta al fenomeno mafioso e della sua penetrazione all’interno dei meccanismi
economici ed imprenditoriali.
In senso piu‘ specifico, tuttavia, la sanzione della condotta di
turbativa d’asta mira a colpire quella condotta tipica mediante la quale si
esercita di fatto il condizionamento mafioso sul sistema degli appalti: “garantire la trasparenza delle gare e delle
procedure d’appalto costituisce, alla luce dell’importanza che queste assumono
in relazione al corretto e produttivo svolgimento della realtà economica
territoriale, esigenza primaria di cui le disposizioni di legge che disciplinano
la responsabilità dell’impresa devono
farsi carico”.
- Alcune osservazioni de iure condendo
1. Il ddl
S 2351, di ratifica della Convenzione ONU sulla criminalità organizzata transnazionale
L’art 8 del ddl, prevede la
responsabilità dell’ente (e sanzioni anche interdittive,
a differenza del ddl 5844) ai sensi del d.lg. 231/2001 per i delitti di associazione
per delinquere (articoli 416 e 416-bis del codice penale;
articolo 291-quater del decreto del Presidente della Repubblica 23
gennaio 1973 n. 43 e articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9
ottobre 90, n. 309) di riciclaggio (articoli 648-bis e
648-ter del codice penale), di traffico di migranti (articolo 12,
commi 3, 3-bis, 3-ter e 5 del testo unico di cui al decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni) di intralcio
alla giustizia (artt 377, 377 bis e 378 c.p.)
2. Le necessarie estensioni per tutelare la libera concorrenza
Ad avviso di chi scrive è necessario prevedere la responsabilità
dell’ente anche per i delitti di cui agli artt 354 e
513 bis c.p. (sul rilievo di queste fattispecie per il contrasto
dell’inquinamento mafioso degli appalti, v. Centonze,
Il sistema di condizionamento mafioso degli appalti pubblici, Milano, 2005).
Qualche tempo fa si era avuta notizia
della predisposizione di un disegno di legge ad hoc da
parte del Ministero per le infrastrutture (per quanto consta non approdato in Consiglio
dei Ministri), che accoglieva, seppur parzialmente, questo auspicio.
In particolare, nel testo che era stato
anticipato, si prevedeva innanzitutto un inasprimento delle pene per
contrastare più efficacemente l’invasione dei grandi appalti da parte della
criminalità organizzata.
L’attuale testo dell’art 353 c.p. (Turbata
libertà degli incanti) così recita:
“Chiunque,
con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi
fraudolenti, impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni
private per conto di pubbliche Amministrazioni, ovvero ne allontana
gli offerenti, è punito con la reclusione
fino a due anni e con la multa da centotre euro a milletrentadue euro.
Se il colpevole è persona preposta dalla
legge o dall’Autorità agli incanti o alle licitazioni suddette, la reclusione è
da uno a cinque anni e la multa da cinquecentosedici euro a
duemilasessantacinque euro.
Le
pene stabilite in questo articolo si applicano anche
nel caso di licitazioni private per conto di privati, dirette da un pubblico
ufficiale o da persona legalmente autorizzata; ma sono ridotte alla metà”.
Ebbene il disegno di legge prevedeva per questo
delitto la pena della reclusione da 2 a 5 anni e la multa da 1000 a 3000
euro per l’ipotesi di cui al comma 1; la reclusione da 3 a 8 anni e la
multa da 1500 a 5000 euro per l’ipotesi di cui al comma 2.
Restava invece invariata la riduzione della metà prevista dal comma 3.
Pene
più severe anche per i soggetti attivi del secondo reato, previsto dall’art 354
(Astensione dagli incanti). L’attuale testo così recita:
“Chiunque, per danaro, dato o promesso a lui o
ad altri, o per altra utilità a lui o ad altri data o promessa, si astiene dal
concorrere agli incanti o alle licitazioni indicati nell’articolo precedente, è
punito con la reclusione sino a sei
mesi o con la multa fino a cinquecentosedici euro”.
La pena veniva innalzata: reclusione da 6
mesi a 3 anni e multa da 500 a 1500 euro.
Ma ciò che più importa è che il disegno di legge
prevedeva sanzioni amministrative a carico degli enti che avessero tratto
beneficio dal reato o che si fossero ritirati dalla competizione.
La sanzione pecuniaria contemplava il solo limite massimo di 600 quote
(ogni quota può arrivare ad un massimo di 1500 euro).
Poteva poi essere applicata una sanzione interdittiva,
nelle ipotesi in cui il vantaggio conseguito dall’azienda sia
stato particolarmente ingente oppure quando il reato sia stato ripetuto
nel tempo.
In particolare si prevedeva l’incapacità di contrattare con la P.A. per
un periodo non superiore a 10 anni, quando l’azienda sia stata avvantaggiata
dalle minacce o dalle promesse fatte da propri dipendenti alla concorrenza,
oppure non oltre i 6 anni quando l’azienda coinvolta si sia
ritirata.
Il divieto appariva particolarmente rigoroso in quanto
i colpevoli non avrebbero potuto contrattare con la P.A. neppure indirettamente
o per interposta persona.
(Maurizio Arena)