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L'impresa intrinsecamente illecita

.. Si intende per impresa intrinsecamente illecita quella costituita ed utilizzata esclusivamente o prevalentemente per fini criminali. Essa rappresenta pertanto la massima espressione dell’illegalità societaria. Tale fenomeno è preso in considerazione dall’art 16 comma 3 del d.lg. 231, laddove si prevede, per l’ente o per una sua unità organizzativa “stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità”: - l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività (vera e propria condanna a morte dell’ente, forse non compatibile con l’esclusione costituzionale della pena capitale nel nostro ordinamento); - la non applicazione delle disposizioni di cui all’art 17 (che impedisce l’applicabilità delle sanzioni interdittive nel caso di riparazione delle conseguenze del reato). La non applicabilità dell’art 17 osta inoltre all’operatività del disposto dell’art 78 in fase esecutiva (se l’ente ha adempiuto tardivamente all’art 17 --> conversione delle sanzioni interdittive in pecuniaria). Ovviamente, in relazione al fondamentale principio di legalità, si fa sempre riferimento all’utilizzazione dell’ente per la commissione dei reati che possono impegnarlo ai sensi della Sezione III (artt 24 ss.). Stante l’univoco disposto dell’art 16, non si applica neppure l’art 13, relativo ai presupposti delle sanzioni interdittive, e l’art 14, sui criteri di scelta delle medesime. In altri termini c’è una valutazione preventiva del legislatore: si applica in queste ipotesi la più grave sanzione interdittiva, che è poi l’unica adeguata e proporzionata, appunto in quanto l’ente è intrinsecamente illecito. Sarebbe forse stato opportuno sancire la non applicabilità delle disposizioni dell’art 12 comma 1, che sono richiamate dall’art 13 come ostative all’applicazione delle sanzioni interdittive. Ovviamente verrà sempre irrogata la sanzione pecuniaria, che, come noto, è indefettibile (art 10): sembra scontata una comminatoria grave, alla luce dei criteri ex art 11 (gravità del fatto – grado di responsabilità/coinvolgimento dell’ente). Si ricordi infine la confisca obbligatoria del prezzo o del profitto del reato, anche per equivalente (art 19). In relazione alla sanzione pecuniaria, va considerato anche il regime della pluralità di illeciti di cui all’art 21: se l’ente intrinsecamente illecito si è reso responsabile di una pluralità di illeciti, il giudice potrà disporre l’aumento fino al triplo della sanzione pecuniaria prevista per l’illecito più grave. Non rileva invece il comma 2, in quanto è già stabilito che si applica l’interdizione dall’esercizio dell’attività. Qualche ulteriore riflessione sul coordinamento della disciplina dell’art 16 con le disposizioni previste negli artt 24 ss. sull’applicazione delle sanzioni interdittive. L’art 16 è disposizione speciale rispetto al 24 comma 3, 25 comma 5, 25 bis comma ... Alcune altre notazioni, derivanti dalla previsione dell’irrogazione della sanzione interdittiva in via definitiva: - non è ammesso nè il rito abbreviato nè il patteggiamento (artt 62 ult. co. e 63 ult. co.); - la sentenza di condanna verrà pubblicata ex art 18; - non sarà mai possibile il ricorso alla gestione di un commissario giudiziale ex art 15 ult. co.; - art 69 comma 2: il giudice dovrà indicare le unità o la sede oggetto della sanzione In definitiva le disposizioni dell’art 16 comma 3, inquadrate nel contesto normativo appena menzionato, costituiscono un inevitabile corollario della natura dell’ente stesso: “si tratta, infatti, di enti dimostratisi insensibili a qualsiasi prospettiva di riorganizzazione in direzione di un rassicurante recupero di legalità”. Secondo la Relazione governativa, all’apice della criminalità d’impresa dovrebbero appunto essere collocati i casi di “impresa intrinsecamente illecita, il cui oggetto sia cioè proiettato in modo specifico verso la commissione di reati”. Si pensi a società finanziate totalmente con i proventi di attività delittuose delle organizzazioni criminali, che pertanto hanno come unico fine quello di riciclare denaro sporco, oppure a società c.d. cartiere, costituite al solo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti o imprese che fabbricano o commercializzano prodotti con marchi falsi (S. Gennai – A. Traversi, La responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano, 2001, 119). Dal punto di vista criminologico è assimilabile a questa ipotesi quella in cui la società “persegua come fine non esclusivo, bensì solo prevalente, la commissione di reati” Trattasi tuttavia di ipotesi marginali, in relazione alla tipologia di reati che attualmente possono impegnare l’ente, anche dopo l’estensione della responsabilità alle ipotesi di reati societari ex art 25 ter (introdotto dal d.lg. 61 del 2002). Parliamo quindi non di enti nel cui interesse o vantaggio viene commesso un reato, ma addirittura di enti che sono un mero schermo per fini illeciti e criminosi. Particolarmente interessante sul concetto di utilizzazione (o forse sarebbe meglio: abuso) delle società per fini illeciti il rapporto dell’OCSE on misuse of corporate vehicles del 1999, reperibile sul sito www.oecd.org. La normativa in vigore concentra invece l’attenzione su “forme di patologia più ordinaria”: tipiche cioè dell’operare economico, dove la funzionalizzazione criminosa di cui si diceva è un fenomeno, se non impossibile, piuttosto raro, ed in cui la commissione di reati contro la pubblica amministrazione o comunque lesivi dell’interesse patrimoniale di un soggetto pubblico (sia esso nazionale oppure non) può discendere come effetto collaterale dalla proiezione della società (sostanzialmente sana) verso una dimensione di profitto. In questo ambito il d.lg. distingue poi tra due forma di economia illegale: - commissione di reati come conseguenza di un diffusa politica aziendale (l’attività discende da decisioni di vertice dell’ente) (art 6) - commissione di reati da parte dei soggetti sottoposti in conseguenza di un difetto di organizzazione o di controllo da parte dei soggetti apicali (art 7) La stessa Relazione mette in rilievo la possibilità di future integrazioni dell’elenco dei reati che possono coinvolgere l’ente, al fine di consentire una concreta portata operativa dell’art 16. Sul punto va senz’altro menzionata la Convenzione ONU del dicembre 2000 (aperta alla firma fino al 12 dicembre 2002) sulla criminalità transnazionale, che prevede la responsabilità delle persone giuridiche (art 10) in relazione, per quel che interessa in questa sede, ai reati di riciclaggio (art 6) e di corruzione transnazionale (art 8). La Convenzione parla appunto, nell’ambito delle misure di prevenzione (art 31) di “abuso di persone giuridiche da parte di gruppi criminali organizzati”. (Maurizio Arena)

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