.. E’ entrato in vigore il 16 aprile 2002 il decreto legislativo 11 aprile 2002 n. 61 recante “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’art 11 della legge 3 ottobre 2001 n. 366”
- La delega contenuta nella legge n. 366/2001 -
L’art 11 della legge 366/2001 delegava il Governo a riformare gli illeciti penali ed amministrativi presenti nel codice civile.
In particolare l’art 11 lett. h (si noti: ancora un art 11, dopo quello “storico” della legge n. 300 del 2000) prescriveva di introdurre, “nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi contenuti nella legge 29 settembre 2000 n. 300 e nel decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231”, una specifica disciplina della responsabilità amministrativa delle società in relazione alla commissione di taluno dei reati indicati nelle lettere a) e b) dello stesso articolo.
Presupposto di tale imputazione è la commissione del reato medesimo “nell’interesse della società” da parte di amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla vigilanza di questi ultimi, qualora il fatto non si sarebbe realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica.
Già in sede di prima lettura si poteva rilevare il riferimento - più generico e comunque parzialmente diverso rispetto alla legge n. 300 e al d.lg. n. 231 - al criterio di imputazione oggettiva del reato all’ente: la legge n. 366 parla infatti di reato commesso “nell’interesse” della società e non anche “a vantaggio” della stessa.
Tuttavia il rinvio ai princìpi e criteri direttivi della normativa in vigore sembrava consentire un’estensione dei medesimi presupposti nella stessa previsti anche all’emanando decreto legislativo.
Sempre secondo la delega, i soggetti che possono “impegnare” la società sono gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori o anche le persone sottoposte alla loro vigilanza.
Viene poi espressamente equiparata l’amministrazione di fatto a quella derivante da qualifiche ufficiali: si tratta di un orientamento legislativo in via di consolidamento (a partire proprio dalla legge n. 300), che recepisce una giurisprudenza che non annovera voci dissenzienti.
Infatti l’art 11 lett e) dispone che qualora l’autore della condotta punita sia individuato mediante una qualifica o la titolarità di una funzione prevista dalla legge civile, al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione è equiparato, oltre a chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, anche chi, “in assenza di formale investitura, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.
Inoltre si stabilisce che, fuori dei casi di applicazione delle norme riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi.
I reati che potranno far scattare la responsabilità della società saranno quelli di cui alle lettere a) e b) dell’art 11, che il governo avrebbe dovuto riformulare con il decreto legislativo.
Tra queste ipotesi criminose rientrano anche le inedite figure dell’infedeltà patrimoniale e del comportamento infedele.
L’infedeltà patrimoniale consiste nel fatto degli amministratori, direttori generali e liquidatori, i quali, in una situazione di conflitto di interessi, compiendo o concorrendo a deliberare atti di disposizione dei beni sociali al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto, ovvero altro vantaggio, intenzionalmente cagionano un danno patrimoniale alla società. Il comportamento infedele è quello degli amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e responsabili della revisione, i quali, a seguito della dazione o della promessa di utilità, compiono od omettono atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio.
Sul punto si ricordi che tra i reati che già oggi possono coinvolgere la società c’è la frode informatica ex art 640 ter comma 2 c.p., con l’esclusione dell’ipotesi del fatto commesso con abuso della qualità di operatore del sistema.
L’esclusione è appunto comprensibile se si pensa che il reato commesso con abuso di posizione non può essere in alcun modo inteso come commesso nell’interesse della persona giuridica.
La competenza ratione materiae spetterà al Tribunale in composizione collegiale, il quale quindi sarà anche il giudice naturale delle società coinvolte ai sensi dell’art 36 del d.lg. 231.
Infine, soprattutto nell’ottica della quantificazione della sanzione amministrativa pecuniaria, va considerata la particolare circostanza attenuante che avrebbe dovuto essere introdotta, in ossequio al principio di offensività concreta (art 11 lett. d), “qualora il fatto abbia cagionato un’offesa di particolare tenuità”.
In altri termini il danno di particolare tenuità potrà rilevare innanzitutto ai fini della riduzione della pena per la persona fisica, ma anche, sotto altro profilo, della sanzione pecuniaria per la società, stante il disposto dell’art 11 del d.lg. 231 (nel quadro della ridotta gravità del fatto).
- Il decreto legislativo 11 aprile 2002 n. 61 -
Il decreto delegato sostituisce per intero il Titolo XI del libro V del codice civile (Disposizioni penali in materia di società e consorzi).
Nella versione definitiva l’art 3 sostituisce la rubrica della Sezione III del d.lg. 231 del 2001: non più “Responsabilità amministrativa per reati previsti dal codice penale”, ma “Responsabilità amministrativa da reato”.
Questa modifica è opportuna in quanto il titolo della rubrica non era formalmente idoneo a ricomprendere le ipotesi di responsabilità dell’ente relative a reati previsti da normative diverse dal codice penale, quali, appunto, quelle disciplinate nel codice civile.
Inoltre viene introdotto l’art 25 ter al d.lg. n. 231 (Reati societari).
Come si vede, il d.lg. 231 è un vero e proprio contenitore delle ipotesi di corporate liability, di quelle esistenti e di tutte quelle che verranno introdotte in un futuro prossimo: infatti già la legge 409 del 2001 aveva inserito l’art 25 bis, in materia di falsificazioni nummarie connesse all’entrata in vigore dell’euro.
Nel nuovo art 25 ter vengono indicate, per ciascuna nuova violazione, le cornici edittali delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogabili alle società.
In altri termini: il numero minimo e massimo delle quote, secondo il particolare meccanismo di commisurazione delle sanzioni pecuniarie previsto dal d.lg. n. 231.
La sanzionabilità delle società commerciali viene prevista in relazione alla commissione dei seguenti reati:
- falsità in bilancio, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge (artt 2621 e 2622 c.c.);
- falso in prospetto (art 2623);
- falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni della società di revisione (art 2624);
- impedito controllo, se ne deriva un danno ai soci (art 2625);
- formazione fittizia del capitale (art 2632);
- indebita restituzione dei conferimenti (art 2626);
- illegale ripartizione degli utili e delle riserve (art 2627);
- illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante (art 2628);
- operazioni in pregiudizio dei creditori (art 2629);
- indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art 2633);
- illecita influenza sull’assemblea (art 2636);
- aggiotaggio (art 2637);
- ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art 2638).
Non è prevista invece la responsabilità dell’ente in relazione ai delitti di infedeltà patrimoniale (art 2634) e di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità (art 2635), per le ragioni sopra esposte: si tratta di condotte contrarie all’interesse della società, che arrecano o possono arrecare un danno alla stessa.
Per altra evidente ragione non coinvolge la società nemmeno la commissione degli illeciti amministrativi di impedito controllo (senza danno ai soci) e di omessa convocazione dell’assemblea, appunto in quanto non c’è un previo reato della persona fisica.
Si aggiunge che se l’ente ha conseguito dal reato un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo (art 3 comma 3).
Nella versione definitiva non è stata invece mantenuta la disposizione secondo cui, nei casi di condanna in relazione a taluno dei delitti appena visti, “si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’art 9 comma 2 del d.lg. 231, per una durata non superiore ad un anno” (art 3 comma 3 dello schema di decreto approvato l’11 gennaio 2002).
Avevo comunque avuto modo di rilevare che la dizione “si applicano”, che sembrava imporre un’applicazione automatica delle sanzioni interdittive, doveva invece essere interpretata alla luce dell’art 13 del d.lg. 231: pertanto l’applicazione di una sanzione interdittiva doveva pur sempre presupporre l’ipotesi del profitto di rilevante entità o la reiterazione degli illeciti da parte della società.
La questione è risolta in nuce dalla versione definitiva del decreto delegato: alla società non si applica alcuna sanzione interdittiva (cfr. art 13 comma 1 d.lg. 231).
Sempre per quanto riguarda il profilo sanzionatorio la Commissione Giustizia del Senato ha pure raccomandato al legislatore delegato di “estendere gli effetti previsti dal secondo comma dell’articolo in questione (art 25 ter n.d.r.) anche al caso di reiterazione della condotta” (parere del 19 marzo 2002).
Il suggerimento non è stato seguito: non è stato previsto l’aumento di un terzo della sanzione pecuniaria in caso di reiterazione ex art 20 d.lg. 231 (commissione di un illecito amministrativo entro cinque anni dalla precedente condanna definitiva).
Del resto una simile previsione non sarebbe stata in sintonia con il sistema del d.lg. 231, ai sensi del quale la reiterazione rileva come presupposto delle sole sanzioni interdittive.
Va ulteriormente rilevato che il decreto in esame non si limita – come la legge 409 del 2001 – ad introdurre nella Sezione III disposizioni sull’entità delle sanzioni, ma sembra intervenire anche sulla “parte generale” dell’illecito amministrativo dell’ente, e precisamente sull’imputazione oggettiva dell’illecito.
Infatti il nuovo art 25 ter consente la punibilità della società in relazione ai reati commessi nel suo “interesse” e non anche a suo “vantaggio”.
In altri termini viene affermato qualcosa di diverso rispetto al criterio di imputazione oggettiva richiesto dalla legge n. 300 del 2000 e dal d.lg. n. 231, vale a dire la commissione del reato “nell’interesse o a vantaggio” dell’ente.
E’ dato rinvenire un’obiezione analoga nel parere fornito dalla Commissione Giustizia del Senato, che è opportuno riportare integralmente:
“…al nuovo articolo 25 ter del decreto legislativo n. 231 del 2001 si suggerisce di sopprimere le parole ‘se commessi nell’interesse della società da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica’.
Questa parte della disposizione infatti appare pleonastica, in quanto meramente ripetitiva di quelli che sono i presupposti soggettivi della responsabilità dell’ente, che sono già compiutamente e articolatamente diciplinati negli articoli 5,6, e 7 dello stesso decreto legislativo. A conferma di ciò è sufficiente rilevare che l’intervento soppressivo suggerito renderebbe il testo del nuovo articolo 25 ter del tutto omogeneo a quello dei vigenti articoli 24, 25 e 25 bis dello stesso decreto legislativo n. 231 e risulterebbe naturalmente coerente con la norma di delega che impone di prevedere la responsabilità degli enti in materia societaria ‘nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi contenuti nella legge 29 settembre 2000 n. 300 e nel decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231’.
Al contrario la formulazione che lo schema propone potrebbe ingenerare dubbi sul piano interpretativo, in quanto potrebbe essere anche letta come limitativa dei presupposti di responsabilità dell’ente (si osservi, ad esempio, come essa letteralmente non preveda la responsabilità dell’ente, nel caso in cui il reato sia commesso da chi esercita di fatto la gestione dello stesso, essendo però un tale risultato in contrasto non solo con il sistema delineato nei citati articoli 5, 6 e 7 del decreto legislativo, ma anche con la direttiva di delega risultante dalla lettera e) dell’art 11 della legge n. 366 del 2001”.
Tuttavia, a ben vedere, l’unico criterio rilevante in sede di imputazione oggettiva è proprio quello dell’interesse: il vantaggio conseguito da un reato non impegna l’ente sul piano sanzionatorio se il reato è stato commesso nell’interesse dell’autore o di terzi (cfr. art 5 comma 2 d.lg. 231).
Quindi il criterio è forse addirittura più corretto: tuttavia è stato inserito solo con riferimento a questa tipologia di reati e non come regola generale (quale quella contenuta nell’art 5 d.lg.).
La riforma del diritto penale societario introduce poi la procedibilità a querela di alcune fattispecie, quali il falso in bilancio con danno ai soci e ai creditori nelle società non quotate, l’impedito controllo con danno ai soci, le operazioni in pregiudizio dei creditori, l’indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori.
E’ opportuno ricordare che l’esistenza (e la permanenza) di siffatta condizione di procedibilità riverbera importanti effetti sul procedimento di accertamento della responsabilità della società.
Infatti non si procede nei confronti dell’ente se l’azione penale non può essere iniziata o proseguita nei confronti della persona fisica per la mancanza di una condizione di procedibilità (art 37 d.lg. 231).
Si noti che l’art 5 del decreto legislativo chiarisce che per i reati procedibili a querela commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la proposizione della querela decorre dalla data predetta.
Infine, alcuni reati si estinguono se il soggetto attivo pone in essere certe condotte “riparatorie” dell’interesse patrimoniale leso (definite “meccanismi post factum di reintegrazione dell’offesa” dalla Relazione di accompagnamento). In particolare:
- Illegale ripartizione degli utili (art 2627): la restituzione degli utili o la ricostituzione delle riserve prima della scadenza del termine previsto per l’approvazione del bilancio estingue il reato;
- Illecite operazioni sulle azioni o quote (art 2628): la ricostituzione del capitale e delle riserve prima della scadenza del termine per l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio nel quale è stata posta in essere la condotta estingue il reato;
- Operazioni in pregiudizio dei creditori (art 2629): il risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio estingue il reato;
- Indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art 2633): il risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio estingue il reato.
Tutti questi reati possono coinvolgere la società ai sensi dell’art 25 ter, se commessi nel suo interesse. Quali effetti produce l’estinzione del reato sull’accertamento a carico della società (prescindendo dalla possibilità di rimettere la querela, la quale peraltro non sussiste nelle ipotesi di cui agli artt 2627 e 2628)?
E’ noto che per il d.lg. 231 solo l’ amnistia – tra le cause di estinzione del reato – impedisce l’accertamento della responsabilità dell’ente (art 8 comma 1 lett. b).
Tuttavia ipotizzare la permanenza del procedimento a carico della società nel caso in cui non si procede nei confronti della persona fisica per l’intervenuto risarcimento del danno appare una conseguenza eccessivamente gravosa del principio di autonomia della responsabilità dell’ente.
Così opinando si eluderebbe poi la stessa ratio della legge-delega che richiede l’essenzialità della lesione patrimoniale dei soci o dei creditori.
Ma tant’è: ad avviso di chi scrive ci si trova di fronte ad una lacuna normativa che lascia lo spazio a censure di incostituzionalità per ingiustificato diverso trattamento di situazioni analoghe.
Infine va valutata l’incidenza dell’esclusione della punibilità nelle ipotesi di false comunicazioni sociali di cui agli artt 2621 commi 3 e 4 e 2622 commi 5 e 6, sul procedimento di accertamento della responsabilità della società.
Le disposizioni menzionate escludono la punibilità della persona fisica se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 % o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%; inoltre il fatto non è punibile se è conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta.
E’ ormai acquisito che il sistema di responsabilità degli enti è strutturato nel senso che da uno stesso fatto storico possono derivare – nella sussistenza di alcuni elementi di collegamento – conseguenze sanzionatorie a carico di due soggetti diversi.
Lo stesso fatto cioè costituisce un reato per la persona fisica e un illecito (formalmente definito) amministrativo per la persona giuridica.
Mi sembra debba ritenersi che se il fatto de quo viene considerato penalmente irrilevante (ab origine: non parliamo di cause di estinzione o di esimenti), non possa in alcun modo costituire il necessario antecedente logico-giuridico di un illecito da ascrivere all’ente.
(Maurizio Arena)
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