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Corte di Appello di Brescia, II penale, 21 dicembre 2011

Ad impossibilia nemo tenetur: assolta la società che non aveva adottato un modello organizzativo per oggettiva impossibilità (il reato era stato commesso pochi giorni dopo l'entrata in vigore dell'art 25-septies in materia di infortuni sul lavoro)

 

Corte di Appello di Brescia, II penale, 21 dicembre 2011 (ud. 14 dicembre 2011)

 

 

FATTO E DIRITTO

Con sentenza in data 29 gennaio 2010 il Tribunale di Brescia:

Omissis

- affermava la responsabilità della "(X) s.r.l." in ordine all'illecito amministrativo di cui all'art. 25 septies D.Lvo 231/01, in relazione al già citato reato contestato al legale rappresentante (W), ed applicava alla stessa, previa diminuzione ex art. 12 cpv. lett. a) D.Lvo 231/08 e riduzione per il rito, la sanzione pecuniaria di € 20.000.

Quanto alla ricostruzione della vicenda per cui si procede e alle motivazioni dell'affermazione di responsabilità di cui sopra, si riportano i passi salienti della sentenza.

Omissis

Passando alla contestazione d'illecito amministrativo rivolte alla società (X) s.r.l., non è inutile ribadire che essa si fonda sul d.lgs. n. 231/01, testo, che, come noto, introduceva e disciplinava la responsabilità amministrativa degli enti collettivi per illeciti amministrativi dipendenti da reato. L'ordito normativo, in origine predisposto in relazione a reati solo dolosi, per tipologie, peraltro, via via ampliate con progressive interpolazioni del testo - così oggi ricomprendendo, fra gli altri, i reati societari, i delitti di corruzione e concussione, i delitti di criminalità organizzata, di riciclaggio, ecc. - con l'art. 25 septies (introdotto dall'art. 9 della l. n. 123/07, successivamente sostituito dall'art. 300 del TU in materia di sicurezza del lavoro) viene a ricomprendere anche - unico esempio di reati colposi che, allo stato, fondano la responsabilità amministrativa dell'ente - i delitti di lesioni colpose e di omicidio colposo, commessi con violazione di norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
L'introduzione della norma in questione ha posto non lievi problemi di coordinamento e di assetto sistematico; ció, soprattutto - ma non solo - in relazione al disposto dell'art. 5 d.lgs. n. 231/01, norma che, nell'individuare i soggetti dei cui operato penalmente rilevante risponde in via amministrativa l'ente, postula espressamente che i reati siano commessi da questi "nel suo interesse o a suo vantaggio". Pare evidente la difficoltà ermeneutica posta dalla norma, ove si consideri che essa sembra individuare un profilo di proiezione finalistica del tutto incompatibile con la struttura del reato colposo, laddove, per definizione, l'agente non vuole l'evento lesivo ma lo cagiona involontariamente con la propria condotta disallineata dalle note direttive comportamentali.
Accesa la discussione creatasi in dottrina - non constano allo stato arresti della Suprema Corte - soluzione convincente sembra essere quella che, per dare un plausibile senso alla norma, intende l'interesse dell'ente in senso non soggettivo ma oggettivo, ossia riferito non alle finalità che presiedono al reato quanto alla condotta del soggetto attivo, in se idonea a produrre un beneficio per l'ente; o, secondo alcuni, in senso ancora più estensivo, agganciando l'interesse, ab imo, all'attività nel corso della quale è commesso il reato. Accolta l'una o l'altra opzione, risulta comunque applicabile il disposto dell'art. 5, scelta questa peraltro obbligata dovendosi escludere ogni approccio che, nel postulare l'irriducibilità dei concetti di interesse e vantaggio alla struttura dei reato colposo, si risolva in una inammissibile interpretatio abrogans dell'art. 25 septies.
Ciò detto, proseguendo nella verifica della sussistenza dei presupposti di responsabilità, si osserva che il caso de quo, innestandosi su una responsabilità penale dell'amministratore unico della società, ricade nell'ipotesi di cui all'art. 5 lett. a) (ossia di responsabilità connessa a reati compiuti da "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa" con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 6, 1° comma, è ammessa prova contraria in caso di adozione ed attuazione, prima della commissione del fatto, di efficaci "modelli di organizzazione e di gestione", di affidamento ad un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di controllo del compito di vigilare sull'attuazione dei modelli - salvo che per gli enti di piccole dimensioni, laddove compiti possono essere svolti anche dall'organo dirigente-, di fraudolenta elusione del modello organizzativo da parte degli autori del fatto-reato, di sufficiente vigilanza da parte dei soggetti preposti al controllo.

Il modello organizzativo, poi, deve rispondere, in generale, alle esigenze fissate dal comma 2 dell'art. 6 - fra di esse, vi è la previsione di obblighi di informazione nei confronti dell'organismo di controllo e l'introduzione di un sistema disciplinare "idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello"; e, con esclusivo riguardo al settore antinfortunistico, ai requisiti contenutistici analiticamente enucleati nell'art. 30 del d.lgs. n. 81/08.

Ora, nella specie, la prova liberatoria non è stata fornita, già solo per il fatto che nessun modello di organizzazione e di gestione ex art. 6 d.lgs. n. 231 risulta essere stato adottato dall'azienda né prima della commissione del fatto, né successivamente: più precisamente, nel giugno 2008, in ottemperanza alle prescrizioni dell'A.S.L., l'azienda si limitava a formalizzare le procedure di lavoro, con individuazione dei soggetti preposti al loro controllo; ivi, peraltro, non si introduce alcun sistema disciplinare e nemmeno si prevedono i nominati obblighi di informazione. Ma, anche al di là della formale adozione di un modello espressamente ispirato alla legge sulla responsabilità amministrativa degli enti, non è stata in ogni caso dimostrata l'adozione, prima del 29.08.2007, di soluzioni organizzative e modalità operative idonee ad impedire il realizzarsi di illeciti quale quello qui in contestazione: anzi, i rilievi sopra svolti con riferimento alla posizione penale di (W) inducono a conclusioni diametralmente opposte.

Sembrano allora, in definitiva, sussistenti i requisiti previsti dalla legge per l'affermazione di responsabilità della "(X) s.r.l.".

Omissis.

La sentenza veniva impugnata anche nell'interesse della società amministrata dal (W), con atto diretto:
- a prospettare l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 l. 123/07 per violazione del principio di ragionevolezza riconducibile all'art. 3 Cost. individuata dall'appellante nel fatto che detta norma aveva esteso la disciplina del D.Lvo 231/01 ai reati colposi come quello per cui si procede senza però prevedere un termine per l'adozione del modello di organizzazione e gestione aziendale idoneo ad escludere la responsabilità dell'ente. Posto, infatti, che la norma in questione era entrata in vigore solo quattro giorni prima che si verificasse l'infortunio de quo, dovrebbe riscontrarsi in essa una evidente incongruenza, non essendo possibile predisporre in quell'arco di tempo ristrettissimo un modello di organizzazione e prevenzione infortuni che potesse soddisfare le finalità alle quali il legislatore si è ispirato (peraltro solo dopo qualche mese erano stati dettati, con il D.Lgs 81/08, precisi e specifici requisiti contenutistici che quei modelli devono prevedere).

Omissis.

Alla odierna udienza il P.G. concludeva chiedendo la conferma della sentenza quanto alla posizione di (W) e l'assoluzione della società "(X) s.r.l. " dall'illecito amministrativo ascrittole per insussistenza del fatto, mentre i difensori dell'imputato e della precetta società si riportavano ai rispettivi motivi di appello.

Omissis.

Per ciò che concerne l'illecito amministrativo contestato alla "(X) s.r.l. " deve anzitutto osservarsi che appaiono infondate le eccezioni di carattere processuale ribadire in questa sede dalla difesa, posto che:

- l'avv. …, seppure in qualità di difensore del (W), aveva avuto modo di ricevere copia del decreto di citazione per il giudizio di primo grado, che era riferito anche alla società da lui assistita (e, quindi egli era pienamente informato della fissazione dell'udienza nella quale sarebbe stata trattata anche la posizione della "(X) s.r.l.");

- non è ravvisabile alcuna nullità del decreto di citazione a giudizio per la mancata indicazione in esso delle fonti di prova, non prevista per i casi di citazione "diretta".

Per il resto, non si ritiene che sia necessario ai fini della definizione del presente procedimento sollevare l'eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dalla difesa, considerato che:

- la questione del lasso ristrettissimo di tempo (pochi giorni) intercorso tra l'entrata in vigore della norma che ha esteso (anche) alle lesioni colpose la disciplina prevista dal D.Lvo 231/01 e la data dell'infortunio può essere valutata favorevolmente per la società appellante sulla base del semplice principio che viene comunemente espresso col brocardo latino ad impossibilia nemo tenetur, tenuto conto che la predisposizione ed attuazione di modelli di organizzazione e di gestione quali quelli contemplati dall'art. 6 del predetto decreto non poteva umanamente essere attuata in quattro giorni (per di più nel mese di agosto); si tenga presente, peraltro, che il legislatore solo a distanza di mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs 231/01 aveva dettato (con l'art. 30 D.Lgs 81/08) una disciplina specifica circa i contenuti che quei modelli devono necessariamente prevedere;
- ricorre un ulteriore profilo "assolutorio" poiché, se deve condividersi pienamente l'interpretazione operata dal primo Giudice della locuzione (contenuta nell'art. 5 c. 1 citato decreto) "reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio" ove riferita ai reati colposi di cui all'art. 25 septies, posto che non è certo ammissibile una "lettura" che comporti di fatto l'abrogazione di quest'ultimo, occorre tuttavia chiedersi se, in concreto (in sentenza il punto non è stato affrontato), la condotta omissiva attribuita all'amministratore della "(X) s.r.l. " (dalla quale è derivato l'infortunio del (Z)) fosse soggettivamente o oggettivamente diretta ad avvantaggiare quest'ultima.

Orbene, ritiene il Collegio di dover dare una risposta negativa a tale quesito, poiché il tollerare da parte del (W) che i lavoratori utilizzassero la piattaforma di cui si è detto in assenza degli stabilizzatori non determinava per la società alcun risparmio né in termini di esborso economico (posto che l'azienda era comunque dotata di tali "strumenti") né in relazione ai tempi di lavorazione (dei quali non appare ipotizzabile un sensibile prolungamento, nel caso in cui fosse stata seguita la prassi di usare gli stabilizzatori). Si è trattato in realtà, ad avviso delle Corte, di una condotta (per quanto grave) dovuta a mera trascuratezza e superficialitá da parte dell'amministratore e non diretta a provocare alla società un qualche beneficio.

La stessa deve essere quindi, assolta dall'illecito amministrativo de quo per insussistenza del fatto.

 

NOTA

La questione dell'inesigibilità dell'adozione/attuazione del Modello è stata esaminata in questa Rivista, nell'articolo L'inesigibilità dell'adozione e dell'attuazione del modello organizzativo, 18 febbraio 2009.

In quella sede si riportava l'opinione del GIP del Tribunale di Napoli (26 giugno 2007), che non aveva ritenuto ipotizzabile un "termine di tolleranza" per l'adozione del Modello organizzativo.

Successivamente il contributo è stato aggiornato ed inserito nel volume "La giurisprudenza sul d.lg. n. 231/2001 - Reati e Modelli organizzativi" (M. Arena - G. Cassano, Nel Diritto Editore).

Si segnala, inoltre, la diversa opinione, rispetto a quanto ritenuto dalla Corte di Appello di Brescia, del GUP del Tribunale di Novara (26 ottobre 2010):

“Tanto premesso. occorre anzi tutto precisare - con riguardo al caso di specie - che il breve arco temporale, pari a circa due mesi, intercorso tra l'entrata in vigore della normativa contestata e la commissione del fatto-reato non comporta in se l'inesigibilità della condotta.Il principio della non esigibilità di una condotta diversa, sia che lo si voglia collegare alla "ratio" della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l'agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui "umanamente" pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla "ratio" dell'antigiuridicità, riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell'agente di uniformare la condotta al precetto penale, non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni ed i limiti di applicazione delle nonne penali sono posti dalle norme stesse, senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso "analogia juris”.

Il vigente ordinamento penale è fondato sul principio di legalità e al giudice non è lasciato alcun margine per l'individuazione della condotta punibile.

La mancanza di una disciplina transitoria, ovvero di un termine cui ancorare la decorrenza degli effetti della nuova disciplina sanzionatoria, comporta che era obbligo immediato per le società adottare e attuare i modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire incidenti sul lavoro del tipo di quello poi verificatosi.L'adozione dei modelli organizzativi costituisce una incoercibile scelta positiva dell'ente di dotarsi di uno strumento organizzativo che, al di là del mero adempimento formale e burocratico, ove preventivamente attuato ed in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società, comporta l'esclusione della responsabilità amministrativa.

Ove sussistano situazioni di rischio, non c'è dubbio che sia necessario agire tempestivamente a tutela di valori fondamentali (quali la vita e l'incolumità personale), adottando tutte quelle misure adeguate a prevenire eventi lesivi, non potendosi altrimenti sacrificare i beni protetti in ragione di inefficienze organizzative e di gestione.L'obbligo di fattibilità dei modelli va correlato ai rischi specifici di commissione degli illeciti, avuto riguardo alle dimensioni, all'organizzazione, alla natura dell’attività svolta e alla stessa "storia" operativa dell’ente, di guisa che più elevato è il pericolo nel caso concreto, più urgente e prioritario è l'obbligo di adozione dello strumento organizzativo.

vale invocare, astrattamente, la procedura opzionale di cui all'art. 6 comma 3 d.lg. 231 al fine di ritenere che non vi fossero le condizioni esecutive per adottare i modelli organizzativi, laddove - come nel caso di specie - alcuna attivazione di tale procedura vi è stata (o comunque era praticabile) da parte dell'ente interessato.Del resto, a ben vedere, la responsabilità amministrativa dell'ente non trova fondamento, in sé, nella mancata adozione e attuazione dei modelli organizzativi, sebbene nella introdotta colpa di organizzazione, di guisa che l'adempimento in questione costituisce una facoltà finalizzata ad esonerarsi da tale responsabilità.

Vale a dire che l'ente risponde in ragione del nuovo illecito amministrativo stabilito dall’ordinamento e che se vuole evitare tale responsabilità deve dimostrare di aver provveduto ad attuare idonei rimedi preventivi nella sua organizzazione interna da cui possono originarsi determinati delitti.Dunque, si tratta di un "onere" da soddisfare, nei termini ritenuti appropriati, nel proprio interesse, essendo rimessa all'ente la scelta di usufruire o meno dell'efficacia "scusante" dei modelli idonei. Orbene, alla luce delle superiori considerazioni svolte sui fatti accaduti, è risultato provato il nesso eziologico tra l'evento morte di XXX e la colpevole violazione di una delle discipline speciali richiamate dall'art. 25 septies.

L'approdo della Corte di Appello è importante perchè coglie la sostanza del problema; tuttavia non sembra corretta - a parere di chi scrive - sotto un profilo formale.

La società è stata assolta per insussistenza del fatto: tale formula copre bene la ravvisata mancanza del requisito dell'interesse/vantaggio (pure sancita in sentenza), ma si rivelerebbe insufficiente a coprire la mancata adozione del modello organizzativo.

Questo perchè il "fatto" (illecito dell'ente) è integrato dalla commissione del reato nell'interesse o a vantaggio dell'ente da parte di soggetto qualificato: l'adozione del modello è un elemento impeditivo della punibiilità, distinto, appunto, dall'illecito già perfezionato.

Insomma: nel caso di specie c'era la possibilità di assolvere l'ente per difetto di interesse/vantaggio e la formula assolutoria è stata semplice conseguenza.

Non così nell'ipotesi "pura" di reato commesso nell'interesse dell'ente, il quale ultimo non ha avuto il tempo materiale per adottare ed attuare il Modello.

In quest'ultimo caso, il fatto sussiste e all'ente non sembra potersi offrire una sentenza assolutoria nei termini di cui alla sentenza commentata.

Salva, ovviamente, la via maestra della questione di illegittimità costituzionale dell'art 6, nella parte in cui non prevede che un ente possa andare esente da responsabilità nelle ipotesi di omessa adozione o attuazione di un idoneo modello organizzativo, per oggettiva impossibilità.

(Maurizio Arena)

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