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Cass., VI, 27735/2010: il PM deve provare la colpa organizzativa

La responsabilità dell'ente non viola l'art 27 Cost. e la pubblica accusa deve provare la colpa organizzativa.

 

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Cass., VI, 18 febbraio – 16 luglio 2010, n. 27735

[Fattispecie in tema di corruzione di membro di commissione aggiudicatrice per ottenere l’assegnazione di appalto di lavori pubblici]

“Omissis.

La disciplina dettata dal d.lg. 231/01 in tema di responsabilità da reato degli enti non entra in rotta di collisione con i principi che la Carta Fondamentale enuncia negli artt 3, 24 e 27 e si rivela pertanto manifestamente infondata la prospettata questione di costituzionalità.

V’è certamente compatibilità tra tale disciplina e il riferimento all’art 27 della Costituzione.

Il fatto-reato commesso dal soggetto inserito nella compagine della societas, in vista del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di questa, è sicuramente qualificabile come “proprio” anche della persona giuridica e ciò in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda: la persona fisica che opera nell’ambito delle sue competenze societarie, nell’interesse dell’ente, agisce come organo e non come soggetto da questo distinto, né la degenerazione di tale attività funzionale in illecito penale è di ostacolo all’immedesimazione.

Omissis.

Conclusivamente in forza del citato rapporto di immedesimazione organica con il suo dirigente apicale, l’ente risponde per fatto proprio, senza coinvolgere il principio costituzionale del divieto di responsabilità penale per fatto altrui.

Né il d.lg. 231 delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva, prevedendo, al contrario, la necessità che sussista la c.d. colpa di organizzazione dell’ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo.

Grava sull’Accusa l’onere di dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell’interesse di questa: tale accertata responsabilità si estende “per rimbalzo” dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo.

Omissis.

Nessuna inversione dell’onere della prova è pertanto ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’Accusa l’onere di dimostrare la commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui all’art 5 d.lg. 231 e la carente regolamentazione interna dell’ente.

Quest’ultimo ha ampia facoltà di fornire prova liberatoria.

Omissis.”

NOTA

In claris non fit interpretatio.

L’art 6 del d.lg. 231 sancisce un’inversione dell’onere della prova a carico dell’ente.

L’illecito amministrativo dipendente da reato è perfetto allorchè uno dei soggetti di cui all’art 5 commette uno dei reati-presupposto ex artt 24 e ss. nell’interesse o a vantaggio dell’ente (sul punto, ad esempio, GIP Tribunale Napoli, 26 giugno 2007).

Il pubblico ministero deve senz’altro provare gli elementi appena indicati (soggetto- reato – interesse/vantaggio), non certo la colpa di organizzazione.

Sarà invece l’ente a dover dimostrare l’assenza di colpa organizzativa (nell’ipotesi di reato del soggetto apicale) secondo le cadenze di cui all’art 6 (in particolare: adozione e attuazione di un idoneo modello organizzativo).

Diversamente nell’ipotesi di reato del “sottoposto”, nella quale non sussiste alcuna presunzione di responsabilità dell’ente: dovrà essere la pubblica accusa a dimostrare l’inidoneità e/o la mancata attuazione del modello organizzativo.

Il recente schema di d.d.l. presentato dall’AREL si propone proprio di eliminare la menzionata inversione dell’onere della prova, costruendo in positivo gli elementi richiesti per l’addebito all’ente: non più “l’ente non riponde se prova che …”, ma “l’ente risponde se…”.

Solo un simile testo di legge potrebbe portare alla conclusione adottata dalla Corte di Cassazione nella sentenza sopra riportata.

A meno di non voler interpretare la pronuncia nel senso – decisamente minoritario anche in dottrina, ma senz’altro suggestivo – di configurare i modelli organizzativi (rectius: la loro assenza o non effettiva attuazione) quali elementi costitutivi (e non impeditivi) dell’illecito amministrativo dell’ente: in questa ipotesi la prova della loro mancata adozione/attuazione sarebbe allora necessaria al PM per convincere il Giudice a pronunciare sentenza di condanna dell’ente.

(Maurizio Arena)

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