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La condanna dell'Arthur Andersen

Il 15 giugno 2002 la società di revisione e consulenza contabile Arthur Andersen è stata condannata da un Jury di Houston per il reato di ostruzione alla giustizia in relazione alla bancarotta della ENRON.

Il 15 giugno 2002 la società di revisione e consulenza contabile Arthur Andersen è stata condannata da un Jury di Houston per il reato di ostruzione alla giustizia in relazione alla bancarotta della ENRON.

Come è noto, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha avviato una inchiesta penale federale sul crack della Enron, uno dei più colossali fallimenti della storia statunitense (quasi 50 miliardi di dollari), causato - sembrerebbe - da una serie di operazioni finanziarie che hanno portato una parte del management a "svuotare" la società trasferendo ingentissime quantità di risorse a "entità finanziarie" esterne che le hanno dissipate.

Enron, che era stata fondata nel 1995 e che poco prima del dissesto contava 20mila dipendenti - molti dei quali licenziati nelle settimane immediatamente successive -, prima del crack era il principale trader mondiale di gas naturale e il primo produttore di energia elettrica degli Stati Uniti.  Tra le altre commodities scambiate sul sistema online di Enron erano presenti anche carbone, cellulosa, plastica, metalli e banda di trasmissione su fibre ottiche.
Il 2 dicembre 2001 la Enron fu costretta ad ammettere il dissesto dei propri conti e a chiedere l'inserimento nell'amministrazione controllata insieme a 19 delle sue controllate, in base al Capitolo 11 della legge fallimentare statunitense. Il "buco" era emerso durante i falliti colloqui per la fusione con la sua principale rivale, la Dynegy controllata dal gigante del petrolio Chevron Texaco.
L'incriminazione formale dell'Andersen da parte del Dipartimento di Giustizia per "ostruzione alla giustizia" è avvenuta il 14 marzo 2002.
L'indictment faceva riferimento alla distruzione di documenti, cartacei ed elettronici, sotto la guida dei vertici del gruppo, iniziata attorno al 10 ottobre 2001, quando la società era a conoscenza della rilevanza dei documenti per la vicenda Enron.

Il processo di primo grado, come si è detto, è terminato con un verdetto di colpevolezza: si tratta, appunto, del verdict del Jury , mentre la sentenza vera e propria è attesa per l'11 ottobre 2002.

Il giorno precedente al verdetto i giurati avevano fatto pervenire al Giudice la seguente nota:

"If each of us believes that one Andersen agent acted knowingly with corrupt intent, is it for all of us to believe it was the same agent? Can one believe it was agent A, another believe it was agent B, and another believe it was agent C? The government argued that four different people were guilty. The jury is asking if we all need to believe thast the same person is guilty".

Ebbene: il giudice Melinda Harmon ha istruito i giurati nel senso che avrebbero dovuto raggiungere un verdetto anche in caso di disaccordo circa l'individuazione della persona fisica che avrebbe ordinato la distruzione dei documenti ed indotto altri a collaborare.

Questa presa di posizione rappresenta una novità nel panorama giurisprudenziale statunitense concernente i presupposti soggettivi della corporate liability, potenzialmente suscettibile di assurgere a precedente ove confermato nei gradi successivi.

E' opportuno a questo punto spendere qualche parola su un principio analogo, contenuto nel d.lg. 231 del 2001.

Ci si riferisce all'art 8, secondo il quale la responsabilità dell'ente "sussiste anche se non è identificata la persona fisica autrice del reato" (c.d. principio di autonomia della responsabilità dell'ente).

E' condivisibile la preoccupazione del legislatore delegato di evitare vuoti di tutela, connessi alla difficile o impossibile identificazione dell'autore del reato in complesse realtà aziendali.

Secondo la Relazione in tutte le ipotesi "in cui, per la complessità dell'assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la responsabilità penale in capo ad uno specifico soggetto, e ciò nondimeno risulti accertata la commissione di un reato, l'ente ne dovrà rispondere sul piano amministrativo"

Sorge tuttavia immediato il problema: se non si conosce l'identità del reo - e quindi, di conseguenza, se si tratti di un soggetto apicale o di un c.d. sottoposto - come si possono applicare gli artt 6 e 7, soprattutto per quel che riguarda l'onere della prova?

Va ricordato che se il reato è commesso da un apice la società, di fatto, è presunta responsabile, fino a prova contraria: potrà uscire indenne dal processo se proverà, in buona sostanza, di aver adottato ed effettivamente applicato un adeguato compliance program, che è stato intenzionalmente eluso dal soggetto di vertice.

Nessuna inversione dell'onus probandi in caso di reato commesso da un soggetto sottoposto al controllo ed alla direzione del soggetto apicale.

Potremmo inoltre assistere a vistose smagliature ed incongruenze nell'applicazione delle sanzioni.

In altri termini: la persona fisica potrebbe essere assolta "per non aver commesso il fatto".

L'ente, nonostante ciò, giusta il disposto dell'art 8, potrebbe essere ugualmente condannato.

Ed inoltre: quid iuris se l'ente decidesse di avvalersi di un rito alternativo - subendone la sanzione - e poi la persona fisica venisse assolta in dibattimento?

Certo in extremis c'è la revisione, ma le complicazioni che si introducono nel (già non celerissimo) processo penale non sono per niente trascurabili.

(Maurizio Arena)

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